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Elbaman, l’esperienza del triathlon

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A destra Filippo Spreaffico

È arrivato il 29 settembre, che vuol dire Elbaman, pettorale N. 10. Gara di triathlon “Super Lungo”, anche se –prima esperienza che porto a casa- il concetto di lungo è relativo. Si misura in km: nuoto 3,8 km (152 vasche di una piscina da 25 m), 180 km in bici, 42,195 km di corsa, la distanza della maratona, ma relativo rimane.

Negli ultimi mesi di allenamento ho metabolizzato un pensiero che mi ha accompagnato in questa lunga alternanza di nuotate al Malaspina, gite in bici sulle Dolomiti e non, e corse. Il triathlon mi sembra un passaggio tra i quattro elementi della natura. Acqua, facile pensare al nuoto. Terra, quando con la bici si è saldi sulla strada, e si percorre ogni metro di suolo. Aria, la corsa. La Treccani dice della corsa: “modo veloce di locomozione in cui il corpo si appoggia ritmicamente ora su un piede ora sull’altro, così che nell’intervallo fra ognuno di questi due appoggi vi sia un attimo di sospensione in aria”. Fuoco, tutto quello che man mano si accende dentro, e continua a bruciare anche dopo il traguardo, compresi i quadricipiti femorali.

Bene, nella gara di domenica questo pensiero si è stravolto, e con un elemento dominante. Quasi più acqua in bici che nel mare, ed il mare era grosso. E poi tanta gente che volava in bici.
Ho voglia di raccontare della mia gara. La sveglia era inutilmente puntata alle 5, perché sapevo che da molto prima sarei stato a letto ad aspettare vigile. Ultimi preparativi nella zona cambio dalle 5.30 alle 6.30, soprattutto cibo e abbigliamento, la bicicletta la si è lasciata la sera prima, già pronta per scattare. Si parte all’alba, ma l’alba non c’è perché è nuvoloso e piove, quindi è buio. Sono le 7, il mare è grosso, ma il buio non ci lascia vedere quanto, noto solo la sua schiuma bianca a riva. Quelle lanterne romantiche che l’anno scorso in cielo hanno rassicurato la partenza degli iromen, quest’anno non volano per la pioggia e le raffiche di vento –dice lo speaker. Io e Delfino, mio cognato, fratello in questa avventura, ci siamo più volte detti il giorno prima che se l’organizzazione decide che la frazione a nuoto si fa, vuol dire che il mare è balneabile (altro concetto relativo). Delfino mi ripete anche da due giorni che abbiamo scelto di fare questa gara e non danza, mi sembra abbastanza convincente e mi convinco. Cerco in giro lo sguardo dei compagni di squadra 2Slow e degli amici del CNM Triathlon che partiranno per il 70.3 (la distanza “corta”), ma non li trovo ancora.

Via! Lo sparo mi coglie di sorpresa, non sono pronto, non faccio partire il cronometro e non ho gli occhialini addosso. Come faccio a non essere pronto già al via dopo mesi di preparazione e dedizione?
È una fatica grande stare allineati lungo le boe gialle direzionali, perché non si vedono, e sfrutto i momenti in cui sono sull’onda per cercarle. Mi ripeto di proseguire boa dopo boa (in particolare ce ne sono tre arancione e con la luce come un faro, che indicano le quattro sponde del quadrilatero). Dopo la prima boa arancione si entra ancora di più in mare aperto, con le onde contro, vedo le meduse. Qui “rivedo” idealmente il primo dei tanti Incontri preziosi che ho fatto quest’estate durante i miei allenamenti. È Pierluigi Costa (www.messaggeridelmare.it). Pierluigi l’ho incontrato e conosciuto l’estate scorsa durante qualche nuotata a Chiessi, insieme ad una tartaruga marina della specie Carretta Carretta. Pierluigi ci ripeteva che nel mare dobbiamo sentirci ospitati, chiedergli di poter stare con lui e sentirsi del mare, non nel mare. Provo a fare mio questo pensiero e proseguo, e così non mi sembra di sentire le sirene che hanno già chiamato cinquanta atleti al ritiro. Sono due giri infiniti, ma sento di nuotare bene nonostante le onde e la corrente. La difficoltà del mare rischia di distrarmi dal curare la tecnica di nuoto, e per me che non sono abile nuotatore è peggio; voglio concentrarmi sul gesto e provo anche ad accorciare la bracciata vista l’onda (penso, come quando nella corsa in montagna si accorcia la falcata in salita). Come era confortante la linea blu sul fondo nella corsia della piscina al Malaspina, che mi dava sempre direzione e ritmo, quando si abbassava a 3 m in fondo, che significava che era il momento di girare.

Esco dall’acqua (1h22’, non male; avevo pensato all’ora e 15, ma –la prima certezza del giorno- i calcoli non servono. La pianificazione della gara è fondamentale, ma non dei tempi). Inizio a pedalare con un brutto mal di stomaco –per le due bevute di acqua salata- che non mi fa alimentare bene per tutto il primo giro. Già sulla salita di S. Ilario riprende a piovere, pioggia battente ma calda, raffiche di scirocco. Incrocio Delfino e mi fa felice vedere anche lui fuori dal mare (non fuori dall’acqua, perché diluvia), ridiamo, ci gridiamo qualcosa; abbiamo preparato la gara insieme e la finiamo tutti e due (anche se ci siamo spesso confrontati –ma forse non preparati- sulla possibilità anche di non finirla). Si vedono le primi biciclette rigidissime da crono con corna di bue che hanno disarcionato i loro cavalieri, con questo tempo sono inguidabili. Ho un fine sorriso sulle labbra pensando che ho tolto la scorsa settimana le ruote in carbonio da 4 cm per rimettere quelle vecchie a basso profilo con tubolari a battistrada generoso, quelli che si usano sul pavé nella Parigi-Roubaix per intenderci. Pensieri diversi che affollano la testa, alcuni che non c’entrano proprio, come quello che se nelle gare di Formula Uno sbagli le gomme perdi la gara. Intanto aspetto che mi passi il mal di pancia: nei mesi di allenamento ho imparato anche a conoscermi meglio, ho già fatto esperienza di questo, so che dopo una nuotata in mare grosso può succedere, e mi schiaccio sulla bici sicuro che prima o poi mi passerà. Infatti.

Al primo passaggio a Marina di Campo (Km 61; il percorso bici è articolato su un circuito di tre giri da 60 km) Letizia è lì, il ristoro più bello. Mi guarda sempre per capire come sto, lei mi conosce, anche se gli Oakley da sole –ma senza il sole- mi nascondono lo sguardo per tutta la gara. Con l’inizio del secondo giro inizia anche il secondo temporale. Tanta acqua ancora, fredda adesso. Rivedo un altro Incontro della mia estate. È Matteo Scotta, classe 1941, pastore di professione e di passione, nato a Cavalese e domiciliato sulle Alpi. Lo conosciamo al rifugio Viel dal Pan, non finisce mai di raccontarci della sua vita con il gregge di pecore, delle notti passate sotto temporali e neve, mangiare solo un panino al giorno. Non si deve temere la pioggia se si è prudenti con la natura. Così ripenso e faccio. Vado veloce anche in discesa, sicuro sui battistrada da 27. Cerco di opporre all’intemperanza dell’acquazzone la semplicità del gesto domestico di mangiare una tartina di pane integrale con formaggio caprino, e rido da solo di questo contrasto (ma anche perché il pane quasi si scioglie sotto l’acqua). Del caprino l’ho visto fare da Kilian Jornet Burgada, si alimenta anche così in gare di ultra-trail, ti toglie un po’ di sapore chimico delle maltodestrine. A qualche brivido di freddo –ma pochi- ripenso che ho fatto il Pordoi il 27 Agosto sotto al nevischio; già fatto. Inizia l’ultimo giro (Km 122). L’energia cala e le incertezze e le paure salgono. È un bilancio molto fine quello tra forza e paura, scende una e l’altra sale. Ogni rumore che sento dalla bici e dal corpo mi spaventa, sono allarmi fatti apposta per diminuire il senso di fiducia. È importante gestire i segnali di allarme, capire a che livello siano. Provare a conoscere il proprio limite (limiti), che è uno dei contenuti dell’iron, non vuol dire fregarsene di quello che si sta provando ed andare avanti a testa bassa –questo è azzardo; vuol dire provare ad ascoltarsi un po’ oltre rispetto alla prima spia di allerta, e capire se si può fare o no. Un ticchettio dal pedale destro che inizia sull’ultima salita di Pomonte mi sembra dica che la bici si sta sfasciando ed un dolore al ginocchio interno sempre a destra mi dice che la gamba anche –forse sono correlati? Il pedale si è dislocato ed il ginocchio lavora male, allora mi sta venendo la tendinite? È il km 157. Pensare che ho passato due mesi a trovare la misura giusta del pedale sinistro, spostando tacchetta e sella di millimetro in millimetro per togliere un fastidio al ginocchio sinistro, ed ora è il destro che si lamenta. A questo punto penso solo – e me lo ripeto come un mantra- che è normale avere paura di non farcela, è normalissimo, ma non è detto che avere paura di non farcela voglia dire non farcela.

Quando inizio a correre mi sento bene e le gambe vanno come speravo. Questo era il momento che mi creava più ansia (sull’ansia bisognerebbe aprire un capitolo a parte, nel senso che per affrontare questa prova l’ansia non dobbiamo chiamarla ansia, non ci lascerebbe in pace per tutto il tragitto; non è ansia, è una “voglia di scoprire cosa ci sarà dopo” –nel mare come sarà la frazione in bici, in bici come sarà l’ultimo giro, come sarà la corsa etc.), è meglio chiamarla curiosità di vedere come si sentono le gambe dopo oltre sette ore in bici, non lo avevo mai provato. Le mie gambe allora mi hanno detto che andava bene così, di continuare. La maratona è divisa in 5 giri di circa 8,5 km. Corro abbastanza regolare, nei primi due giri potrei accelerare, ma anche potrei rallentare per godermi l’ultima fase. All’inizio del quarto giro è bello vedere il tramonto sul mare, che ringrazio con riverenza per avermi accolto dodici ore prima. Sembra non manchi molto, ma gli ultimi 15 km sono un muro. Proprio quando mi sembra di vedere la fine, la fine sembra non vedere me. Ecco in aiuto altri Incontri del mio periodo di avvicinamento all’iroman. Sono in tanti, sono i ragazzi del mio reparto, che fanno una gara molto più intensa ogni giorno e non mollano. Sono loro i duri. Corro, e penso anche a quante persone devo ringraziare per aver avuto la possibilità di fare questa esperienza. Fare l’iron –finito o no- è un’esperienza, e che quindi ti può lasciare qualcosa. Può anche non essere immediato vedere subito quello che ha lasciato, qualcosa salterà fuori anche più avanti. Iroman non è la gara in sé, è tutto il cammino che ti porta lì, la gente che incontri prima e dopo, la gente che nei ristori ti aiuta a mettere la mantellina anti-pioggia e pensi che senza di loro non potresti farlo, i bagnini del Malaspina che ti aspettano pazienti mentre nuoti da solo fino all’ultimo minuto di chiusura della piscina. La mia famiglia. Gli amici che sul percorso mi hanno sempre chiesto come stavo, una domanda mai retorica ma una domanda fondamentale, perché se la risposta fosse state “non bene” sono sicuro che mi avrebbero dato una mano anche dal di fuori. I miei amici erano lì fino alla sera, anche avendo finito la loro gara del 70.3 molte ore prima. Gli amici che mi hanno lasciato i messaggi sul telefono.

Tredici ore è tanto tempo, per quello che non va buttato. In tredici ore si guardano sei film senza la pubblicità, sono quasi due giornate lavorative, si va in macchina da Trento a Lecce, in aereo in centro America. Sono circa 800 minuti, si giocano quasi nove partite di calcio.
Bello finire un iroman.

Filippo Spreaffico
socio Malaspina è medico,  sposato padre di tre figli e  triatleta

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